Nell’era dei social non è più una notività che la leadership aziendale possa cogliere l’opportunità di ingaggiare i propri pubblici. Oggi si parla addirittura di CEO Branding e Social Leadership e si fanno classifiche della reputazione dei leader. Ma sono la stessa cosa?
L’esperienza sul campo fatta in anni di consulenza, di fatto siamo stati pionieri in questo ambito, inclusi progetti con CEO di aziende Fortune 100, ci ha portati a individuare i seguenti sette livelli di CEO Branding.

Ciascuno step va considerato come un consolidamento del precedente, nel senso che aumenta i benefici apportati all’organizzazione e coinvolge differenti pubblici e stakeholder aziendali. La decisione in merito a quale strategia va presa in base proprio al contesto aziendale, le opportunità presenti e, last but not least, da quanto è predisposto (ed efficace) il CEO (o la CEO!) nel metterci letteralmente la faccia.
Eccoli descritti nel dettaglio:
1. Assenza
Ancora oggi molti leader non riescono ancora a cogliere le innumerevoli opportunità che potrebbero presentarsi portando avanti una relazione con i propri pubblici e puntando sulla propria immagine, quindi preferiscono restare in disparte. Questo può accadere per varie ragioni: la poca predisposizione della persona, un particolare contesto competitivo legato magari anche al settore di riferimento, oppure la presenza di altre strategie consolidate per raggiungere gli obiettivi aziendali.
Negli ultimi anni, l’assenza è spesso collegata alla poca compentenza nel presidiare i canali digitali (eppure basterebbe un profilo LinkedIn configurato bene). È chiaro che in alcuni contesti, per esempio nel caso di una crisi aziendale, tale assenza può risultare dannosa, specialmente se la comunicazione interna non è coerente con i messaggi che vengono trasmessi all’esterno.
2. Top-down
Un passettino avanti, ma non ancora sufficiente, si trovano quei CEO che si limitano a una comunicazione tradizionale e top-down, in stile prettamente aziendalese, mediata spesso da uffici stampa non evoluti o agenzie di comunicazione “poco indipendenti”. Spesso sono consapevoli che non è certo lo stile adatto per entrare in relazione con i loro pubblici, specialmente nei contesti in cui vogliono attirare opportunità.
Anche a loro basterebbe un piccolo sforzo comunicativo, ma probabilmente sono ingessati o limitati dall’ambiente, dalle loro competenze e dalla loro personalità.
3. Leadership
Saliamo un altro po’ e troviamo quei leader che hanno compreso la necessità di puntare sulla loro figura per migliorare clima, cultura e allineamento interno. Secondo gli esperti di leadership, infatti, i top manager svolgono un ruolo essenziale sia nell’attrarre nuovo personale sia nel determinarne l’uscita dall’azienda.
La comunicazione in questo livello è spesso rivolta all’interno utilizzando canali aziendali (blog, newsletter e magazine) e si focalizza sui messaggi aziendali. Le forme più sofisticate includono un approccio moderno e colloquiale in cui il leader punta su aneddoti, competenze ed elementi personali. Uno dei primi esempi è stato quello di Bill Marriott, Executive Chairman ed ex CEO dell’omonima catena alberghiera, che con il suo blog personale ha fatto scuola per moltissimi anni.
Del resto è vero anche che la differenza tra comunicazione interna ed esterna è diventata parecchio sottile: è molto facile che le comunicazioni verso l’esterno siano lette soprattutto dai collaboratori, che spesso sono i primi a essere coinvolti quando si tratta di dover diffondere i messaggi!
Per approfondire, vi invitiamo a leggere su Forbes tutti gli sforzi che Marriott compie per far stare meglio i suoi dipendenti anche con la pandemia in corso, perché avere dipendenti più soddisfatti vuol dire offrire un servizio migliore anche ai clienti. Uno studio di PWC ha evidenziato che solo il 28% dei dipendenti intervistati si sentivano connessi agli obiettivi dell’azienda, e più della metà non si sentivano entusiasti del loro lavoro. La percentuale sale sopra il 60% nelle aziende in cui si comunica il valore ai clienti (e magari si offre lo stesso valore ai dipendenti).
4. Selling
In alcuni contesti la priorità strategica è quella della lead generation, che nel senso più ampio può essere intesa come la generazione di interesse da parte dei potenziali clienti in merito all’acquisto dei prodotti o servizi aziendali. Un atteggiamento del genere è spesso l’unico focus di molte strategie di CEO Branding delle PMI.
Il CEO e l’organizzazione si concentrano su azioni che portano risultati concreti, anche a breve termine. Vi sono casi in cui il contesto lo permette e il leader delle aziende è spesso coinvolto anche in attività pubblicitarie: per darvi un’idea precisa, pensate a Francesco Amadori, Giovanni Rana o al compianto Ennio Doris, che sono stati tra i primi ad aver messo la propria faccia e personalità per promuovere il proprio prodotto o azienda.
5. Social CEO
Grazie alla disintermediazione dei media, sempre più CEO iniziano a presidiare i canali digitali diretti di proprietà dell’azienda e i social media, per attrarre i pubblici in conversazioni e iniziative che li coinvolgono direttamente. Questo atteggiamento è spesso apprezzato dagli stakeholder e dall’opinione pubblica, ma anche dai clienti che prediligono relazioni con i leader aziendali, tanto che oggi si parla sempre di più di social CEO.
Secondo una ricerca globale di Weber Shandwick, l’81% degli executive intervistati ritiene che l’engagement dei CEO sia un fattore chiave per costruire la reputazione di un’azienda. Gli stessi stimano che il 44% del valore di mercato di un’azienda sia attribuibile alla reputazione di chi la guida. Il rischio in questo caso è avere solo una strategia reputazionale e non di senso e di posiziona mento. Questa si rivelerebbe troppo debole per lasciare il segno nel mare magnum digitale moderno.
In generale la nostra esperienza ci dice che tali iniziative vengono spesso abbandonate, affidate a sterili accordi con agenzie esterne o addirittura poco presidiate. Esistono infatti tanti modi di governare i social, alcuni davvero deleteri: si può avere un account e non postare mai niente, averlo completamente chiuso agli accessi altrui, gestirlo in maniera incoerente rispetto alla strategia di Personal Branding implementata offline, tipicamente da altri organi aziendali. Lo si può anche utilizzare nella maniera sbagliata, facendo della comunicazione dai toni marcatamente corporate e con un approccio top-down come descritto in precedenza. Un profilo social personale non è un megafono per i comunicati stampa, che sono necessari in quanto nascono per altri scopi e con un altro target.
Si ottengono migliori risultati quando si comincia a interagire e non solo a declamare, quando si parla di cultura e valori aziendali e non solo di numeri, quando si apre un canale di vendita, per quanto mediato. In sintesi quando si riesce a influire sulla reputazione e sull’immagine aziendale, possibilmente coordinando la propria strategia fuori dal digitale.
Se i mercati sono conversazioni (cit. dall’immortale Cluetrain Manifesto, passato da 95 a 121 tesi nel 2015), pensare di usare ancora una comunicazione monodirezionale può rivelarsi un passo falso. Certo, non tutti hanno compreso l’importanza di esporsi in prima persona: “Alcuni CEO dicono di essere troppo occupati per pensare anche ai social media. Io dico, è parte del nostro lavoro”, afferma Jack Salzwedel, il CEO di American Family Insurance, società inclusa nella lista delle Fortune 500. Lui invece risultava il CEO più “social” di tutti fino a qualche anno fa.
Come potete vedere qui sotto, twittava 9 volte più dei suoi colleghi!
6. CEO Activist
Qui siamo quasi nell’Olimpo. A questo livello si tende a vedere il CEO come paladino di temi sociali o valoriali, tipicamente cari ad alcuni gruppi rappresentativi dei pubblici di riferimento dell’azienda. I temi non devono necessariamente essere collegati al core business aziendale e possono non contribuire alla strategia di branding, in quanto non spingono necessariamente ad aumentare la considerazione o la scelta da parte di tutti i consumatori. L’impatto avviene tipicamente sulla reputazione aziendale, nella quale autenticità e trasparenza sono fattori importanti. Sopratutto oggi.
Il CEO Activist infatti può correre il rischio di polarizzare i pubblici scatenando fan e detrattori che potrebbero causare qualche problema in termini di reputazione, soprattutto online. Basti pensare all’ex CEO della Unilever Paul Polman con il suo focus sulla sostenibilità, o ancora al ben noto caso di Tim Cook di Apple e alle sue prese di posizione sull’eguaglianza di genere e sui temi dei diritti umani. Dichiarazioni che gli sono costate sotto l’aspetto personale, dopo che nel 2014 era diventato il primo CEO di una Fortune 500 a dichiararsi gay: “Quando penso al mondo, molti dei problemi che vedo sono relativi alla mancanza di uguaglianza e pari opportunità”.
In Italia l’imprenditore umbro Brunello Cucinelli rappresenta un esempio eccellente. Il suo nome non è più tanto (o solo) associato al cachemire che produce quanto alla sua visione aziendale, che gli è addirittura valsa un dottorato honoris causa con le seguenti motivazioni:
Agli inizi del Novecento l’uomo ha perso di vista molti dei valori più importanti, isolandosi e disumanizzandosi dinanzi alla ricerca del profitto. Si è di volta in volta avvertita la necessità di tornare a quella pluralità di valori propria dell’uomo intero, illuminato e contraddistinto da umanità e spiritualità. Cucinelli è un chiaro esempio in questa direzione; ha immaginato, in modo originale, il suo modello d’impresa basato su un lavoro svolto, come egli stesso dice, in modo tale che nessuno possa rubare l’anima del prossimo. La sua visione è un connubio virtuoso di economia, etica e relazioni concrete. Il percorso di Cucinelli è stato illuminato da pensatori morali come Immanuel Kant, Cartesio, San Benedetto, San Francesco, Seneca, Marco Aurelio, fondamentali per lo sviluppo della sua idea, trasmessa in innumerevoli interviste e conferenze che hanno rivelato, in primis, la cultura filosofica e lo spessore etico del personaggio, prima ancora che la visione imprenditoriale.
Queste le parole della sua lectio magistralis, a rafforzare secondo noi la sua immagine di CEO Activist:
Nella mia azienda non si lavora mai oltre le 17.30, non si inviano e-mail aziendali serali e non si resta connessi il sabato e la domenica. È possibile coniugare il profitto alle regole etiche che l’uomo ha definito nel corso dei secoli. Così, la fiaccola del progresso arde sempre e, allora, domani alziamoci con la speranza, senza paura.
Come ha ricordato “il Sole 24 Ore”: “Brunello Cucinelli non ha solo ‘inventato il cashmere colorato. Non ha solo trovato un nuovo modo di intendere lo stile italiano. Ha anche impostato – e promuove instancabilmente – una filosofia imprenditoriale con frasi come ‘Conviene restare umani, custodire la riservatezza, preservare degli spazi di non connessione’, o ‘Per quanto riguarda la qualità delle relazioni umane, abbiano una regola molto semplice: chi offende qualcuno, a parole o con il suo comportamento o atteggiamento, viene gentilmente accompagnato alla porta dell’azienda”.
7. CEO Brand
Quando temi, valori e competenze sono veicolati a un pubblico preciso, in maniera chiara, costante e coerente con gli obiettivi di branding dell’azienda, si parla realmente di CEO Branding. In questo contesto il CEO si posiziona su un aspetto coerente con il posizionamento aziendale e diventa una colonna nella notorietà, considerazione e nella capacità di influenza del brand. In questi ambiti il CEO guadagna in influenza e ottiene tutti i vantaggi illustrati in precedenza, per se stesso e per l’azienda.
Quando il CEO è così identificabile ovviamente uno dei principali benefici del CEO Branding è quello dell’employer branding: le persone desiderano lavorare per leader di cui possono essere fieri. Più del 70% degli intervistati da Edelman nel 2019 (figura qui in alto) ha dichiarato che si aspetta azioni concrete che diano beneficio alla comunità in cui l’azienda opera, e al contempo che il CEO deve guidare il processo di cambiamento (la ricerca completa qui sul sito di Edelman).
Egli ha infatti acquisito il rispetto del suo pubblico e il diritto di veicolare i valori e la cultura dell’azienda e quindi viene coinvolto spontaneamente in iniziative di thought leadership dai media e dai centri di influenza. Ci sono diversi studi giunti alla conclusione che quasi tutti gli analisti in ambito finanziario si dichiarano disponibili ad acquistare azioni basandosi sull’idea che hanno del CEO, e raccomanderebbero ad altri di fare la stessa cosa.
Pensiamo a quando Steve Jobs ha lasciato Apple o alla più recente vicenda di Elon Musk, che con le sue dichiarazioni via Twitter aveva fatto fluttuare considerevolmente le borse: le azioni hanno perso il 3%, bruciando diversi miliardi di dollari solo in quella mattinata. La figura di Musk è stata determinante nel cercare di spingere il brand nella incredibile sfida di competere contro le auto sportive europee. Un altro CEO Brand dallo stile molto particolare è per esempio John Legere, ex CEO di T-Mobile, che con la sua energetica e carismatica presenza online è riuscito a traghettare T-Mobile nel futuro degli operatori telefonici.
Un livello ancora superiore: il CEO Icon
In rari casi si può parlare di un ulteriore livello di CEO Branding, quello del CEO Icon: quando il CEO diventa un’icona della cultura di riferimento in cui si muove la sua organizzazione o addirittura della società in generale. In questo contesto spesso il leader è anche il fondatore dell’azienda e genera nuovi trend culturali. Senza scomodare Steve Jobs e i designer/fondatori di alcune delle più grandi aziende di moda e stile nel mondo, possiamo citare nuovamente Elon Musk diventato capace di incarnare il concetto di “dream bigger”. Come sottolinea più volte nella celebre intervista con Chris Anderson per TED, l’umanità ha bisogno di pensare più in grande per ispirare il proprio futuro.
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