Il Personal Branding rientra nel contesto della strategia professionale. Per questo l’abbiamo definito come una serie di tattiche e metodologie che contribuiscono in qualche modo a farsi conoscere, posizionarsi e attrarre opportunità, soprattutto in ambito digitale dopo la profonda rivoluzione apportata da Internet alla promozione personale. Ma il Personal Branding non va confuso con la consulenza di immagine, le relazioni pubbliche, il web marketing, il networking ecc.
Questi sono soltanto elementi dell’insieme, funzionali a raggiungere il risultato prefissato di sviluppare un’immagine professionale per attrarre le giuste opportunità. Il Personal Branding invece è l’approccio strategico di respiro più ampio, volto anche a organizzare e rendere coerenti gli approcci tattici.
Una definizione sociologica del Personal Branding
Immaginiamo il Personal Branding come un racconto, una narrazione, una messa in scena, nel senso letterale del termine: predisporre degli oggetti e delle azioni a beneficio di un pubblico.
L’autopresentazione, un modo in cui un individuo può trasmettere informazioni agli altri, è il meccanismo che consente a una persona di creare e mantenere la sua identità di marca. Questa performance sociale può essere paragonata a un teatro in cui, all’interno di ogni scena della vita, l’attore centrale sceglie il guardaroba, i puntelli e gli sfondi appropriati per proiettare un’identità desiderata al pubblico attraverso complesse trattative con se stessi, apportando modifiche nel tentativo di mantenere un’identità coerente.
(Gandini A., The Reputation Economy. Understanding Knowledge Work in Digital Society, Palgrave Macmillan, London 2016)
Tale riferimento sociologico non deve in alcun modo far intendere che il Personal Branding sia una strategia che si fonda sulla mendacia o sulla finzione. Di fatto, visto l’ambito in cui si muove il Personal Branding e i particolari equilibri identitari a cui è sottoposto, occorre chiarire anche altri aspetti più spinosi.
Cosa non è Personal Branding?
1) Il Personal Branding non riguarda il vendersi
Non si tratta di vendere o di vendersi, ma di farsi comprare meglio (e prima) e di aiutare i potenziali clienti o il pubblico di riferimento a sceglierci. Un tentativo diretto di vendersi non è neppure efficiente in quanto può suscitare emozioni non positive: nessuno ama essere interrotto o disturbato se non è strettamente necessario.
Nel contesto sociale italiano inoltre la vendita è tristemente spesso interpretata come un atteggiamento intrusivo e truffaldino, non come una nobile professione come invece meriterebbe (scopri i nostri servizi sull’innovazione della forza vendita)!
2) Il Personal Branding non riguarda il vantarsi
Mettere in evidenza i propri tratti distintivi e la propria promessa di valore è corretto. Essere autoreferenziali è noioso e controproducente. Nessuno ama le persone che si vantano. Eppure, in assenza di chiarezza sul proprio messaggio e posizionamento, è facile che si scivoli verso l’autoincensamento.
Occorre tenere presente inoltre che ciascuno di noi è tendenzialmente orientato in primis a se stesso e ai propri bisogni, mentre agli occhi degli altri non contano le competenze, conta la promessa percepita di saper risolvere un problema. A questo sono veramente interessate le persone: al valore che possiamo portare alla loro vicenda personale. In altre parole, l’aggiunta di valore agli altri potrebbe essere più efficace dell’aggiunta di valore principalmente a se stessi.
3) Il Personal Branding non riguarda la celebrità fine a se stessa
Ogni giorno sui media incontriamo persone che si sono rese famose, volontariamente o meno (pensiamo agli youtuber o agli influencer). Nel 1968 nel catalogo di una mostra al Modern Museet di Stoccolma, Andy Warhol, quasi veggente, dichiarò:
Nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per quindici minuti.
Oggi grazie ai reality show, ai social media e alla democratizzazione della produzione di contenuti portata dal digitale, per cui ciascuno di noi può diventare un media, forse Andy Warhol direbbe:
Ciascuno oggi può essere famoso per 150 persone.
In questo contesto si parla infatti di micro-celebrità. L’amore per la fama a volte inganna, soprattutto in mancanza di una strategia precisa. Può durare pochissimo e farci conoscere per le ragioni sbagliate. La notorietà infatti non è una cosa necessariamente positiva e va ben distinta dal prestigio. Al contrario, potremmo attirare le opportunità sbagliate, con conseguente perdita di tempo per tutti, o esporci troppo, anche al di là della nostra soglia di comfort. Gli influencer che hanno successo sono tali perché vivono con maggior serenità la grande esposizione digitale della loro dimensione privata.
4) Il Personal Branding non riguarda la manipolazione
Il Personal Branding ha diverse finalità strategiche. La prima, come suggerisce anche la pragmatica della comunicazione, è quella di influenzare. Difatti, come ci insegna lo psicologo e professore di marketing all’Arizona State University Robert Cialdini:
Un modo per convincere le persone ad ascoltarci con attenzione e renderle pronte a muoversi nella nostra direzione è fornire loro delle prove reali e oneste di ciò che perderebbero se non si muovessero nella nostra direzione.
Non si tratta di un’azione violenta, di un esercizio di forza oppure dell’espressione di una forma di potere, come potrebbe essere se volessimo convincere – o peggio ancora manipolare – qualcuno. Viceversa, è più un’opera di persuasione, come quando desideriamo portare qualcuno “dalla nostra parte”, così che possa cambiare un’opinione o un comportamento nella direzione a noi più confacente (Kahn B.E., Global Brand Power Leveraging Branding for Long-Term Growth, Ed. Wharton Digital Press).
Il Personal Branding favorisce l’influenza personale nell’ottica etica della persuasione e non della manipolazione!
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La foto è di Hunters Race su Unsplash