Nella prima parte di questa trattazione abbiamo parlato di come ha impattato la tecnologia sul mondo del lavoro negli ultimi anni e di come il Personal Branding può aiutare tutti a orientarsi nell’incertezza. Adesso è il momento di approfondire questi concetti.
Gli impatti del futuro (e presente) del lavoro
Come risulta evidente, anche il mondo del lavoro è cambiato. Le rigidità che hanno contraddistinto il mercato si stanno fortemente attenuando a fronte di soluzioni più flessibili, che rispecchiano meglio le esigenze dei datori di lavoro e degli individui. La tecnologia sta sostituendo alcune attività, modificando la natura di molti mestieri e creandone altri. Pensiamo alla grande domanda di knowledge worker – professionisti il cui capitale principale è la conoscenza – la quale non potrà che aumentare.
Fattori demografici uniti a una trasformazione delle competenze richieste non possono che causare il cosiddetto skill shortage, relativo alla difficoltà di reperire personale qualificato denunciata da tanti datori di lavoro. Come mai le aziende faticano a trovare i giusti collaboratori, soprattutto se pensiamo alle importanti percentuali di disoccupati che ci hanno accompagnati in questi ultimi anni?
Di certo c’è stata e continua tutt’ora incessantemente l’evoluzione delle figure necessarie alle organizzazioni, con continui aggiustamenti dei profili-tipo da inserire. Le imprese hanno realizzato di avere bisogno di competenze diverse da quelle già presenti al loro interno e, pur rivolgendosi al mercato esterno o alle stesse università, non trovano persone in possesso di quei determinati requisiti. Tale mismatch, ovvero il mancato incontro tra il polo della domanda e dell’offerta, può essere sicuramente imputato al differenziale tra le skill richieste e quelle disponibili.
Per questa ragione si parla di upskilling e reskilling della forza lavoro. Arricchire le vecchie professioni di nuove competenze – digitali e non solo – è una questione di sopravvivenza. Secondo i dati forniti dal World Economic Forum, i mestieri tradizionali verranno fortemente trasformati. Sono a rischio interi comparti e le persone che ci operano. Le proiezioni del Bureau of Labor Statistics prevedono che, nel periodo fino al 2026, il mercato del lavoro statunitense vedrà un declino strutturale dell’occupazione di 1,4 milioni di posti di lavoro in esubero, contro una crescita strutturale dell’occupazione di 12,4 milioni di nuovi posti di lavoro.

Al tempo stesso, però, c’è un’altra variabile da tenere in considerazione: il posizionamento e la capacità del singolo lavoratore, che sia un candidato o un collaboratore già in azienda. Spesso non è in grado di comunicare il proprio valore e proprio per questo non viene nemmeno notato da chi fa selezione. Si tratta evidentemente di una questione cruciale, che è facilmente risolvibile applicando i concetti del Personal Branding.
Il Personal Branding è una delle componenti essenziali per migliorare la propria employability, ovvero la nostra capacità di mantenere un’occupazione nelle diverse fasi della nostra vita. Le competenze sono – come è ovvio – un fattore essenziale. Ma senza un’adeguata strategia di marketing personale rimarrebbero carta straccia. Se vogliamo essere impiegabili e aumentare la nostra attrattività e spendibilità sul mercato del lavoro, quindi, oltre a “saper fare” e “saper essere”, dobbiamo anche “saper dire” e “saper valorizzare”. “Saper dire” nel mondo reale, fisico, ma non solo. Con l’esplosione dei social media la nostra identità ha una dimensione fortissima anche nel mondo “virtuale” di Internet.
Inoltre, i processi di automazione delle risorse umane (una realtà già attuale, non futuristica) prevederanno da un lato una trasformazione massiccia del ruolo del recruiter, ma dall’altro un cambiamento di paradigma nella ricerca di lavoro. I motori di ricerca come Google, piattaforme social come Facebook, per non parlare di LinkedIn, hanno già modificato e modificheranno in maniera sempre più sostanziale il modo in cui si cerca lavoro da un lato e personale dall’altro.
Banalmente, se una volta bastava padroneggiare l’alfabeto e recarsi in edicola per poter leggere degli annunci di lavoro su un giornale, adesso quello che serve è avere ben chiari i meccanismi che regolano gli ecosistemi digitali che abitiamo online.
In seconda battuta, non va trascurata la rivoluzione industriale in atto, che sta trasformando in modo significativo il modo in cui viene realizzata la produzione, ovvero la cosiddetta Industry 4.0. A che cosa ci riferiamo nello specifico? Alle innovazioni che stanno attualmente cambiando del tutto le industrie manifatturiere grazie all’Internet of Things, alla robotica, all’intelligenza artificiale, e molto altro ancora. Si coniugano cose quali lean production, automation e IT, con un impatto molto forte sui mestieri e i modi di lavorare.
Le tecnologie intelligenti e connesse possono trasformare il modo in cui le componenti e i prodotti vengono progettati, realizzati, usati e mantenuti. Possono anche trasformare le organizzazioni stesse: in che modo interpretano le informazioni e agiscono su di esse per raggiungere l’eccellenza operativa e migliorare continuamente l’esperienza del consumatore/partner. In breve, la Industry 4.0 sta introducendo una realtà digitale che può alterare le regole di produzione, le operazioni, la forza lavoro, persino la società. Per approfondire c’è questa bellissima serie di Deloitte sull’Industry 4.0.

Dobbiamo comunque tenere presente che la Industry 4.0 non automatizza soltanto i posti di lavoro, ma ne crea molti di nuovi. Settori come motorizzazione, trasporto, logistica, elettronica, robotica o energia rinnovabile sono destinati a esplodere. Serviranno professionisti in grado di creare, gestire e mantenere viva l’Industry 4.0. E poi ci sarà tantissimo bisogno di trainer: persone responsabili di addestrare gli esseri umani a lavorare con l’intelligenza artificiale o di spiegare come funzionano nuove macchine, ma non solo. Ci sarà bisogno di insegnare i sistemi di intelligenza artificiale.
Nel libro Personal Branding per l’Azienda, edito da Hoepli riceverai un’interessantissima intervista a Fabio Moioli di Microsoft!
Oggi esistono già persone responsabili dell’implementazione degli algoritmi, ma sarà ancora più incisivo saper dare le giuste istruzioni a robot, chatbot, case intelligenti, robot-assistenti, insegnare loro come affrontare le emozioni, come capire il linguaggio comune e aiutare gli esseri umani in situazioni straordinarie.
Cosa succederà se non saremo in grado di creare tanti nuovi posti di lavoro quanti quelli che porterà via l’automazione? Gli economisti stanno già pensando a nuove soluzioni per evitare di accrescere la povertà e di arricchire solo chi è già benestante. Secondo Klaus Schwab, economista e fondatore e del World Economic Forum, l’unico modo per far fronte alla Quarta rivoluzione industriale è imparare a collaborare tra settori, Paesi e discipline diverse, cercando di gestire la complessità e gli impatti della tecnologia sull’Industry 4.0.
Più nel dettaglio, Schwab crede sia fondamentale che i leader e i cittadini collaborino assieme per “dare vita a un futuro che funzioni per tutti mettendo le persone al centro, dando loro il potere di agire, tenendo sempre a mente che tutte queste tecnologie sono in primo luogo strumenti costruiti dalle persone per le persone”.
L’evoluzione menzionata ha già cambiato il modo di vivere – l’era dell’IoT connette tecnologie, dispositivi e ambienti intorno a noi. Dati, auto elettriche, case intelligenti che possiamo controllare attraverso lo smartphone: questo è il presente e il futuro della nostra vita non solo nell’aspetto personale, ma anche professionale. L’Internet of Things connette non solo le “cose” ma, soprattutto, le persone. Ha cambiato i modi in cui comunichiamo, socializziamo e lavoriamo.
Tra gli altri fenomeni da considerare, modalità di lavoro assolutamente originali. Dal Bring Your Own Device (BYOD), ovvero la possibilità per il dipendente di utilizzare strumenti di lavoro propri e non aziendali, allo smart e remote working, che prevede la possibilità di organizzare le proprie attività lontani dall’ufficio.
Del resto, sono le dinamiche stesse alla base dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro a essersi completamente trasformate. Pensiamo all’ascesa fenomenale della gig economy, fondata su lavori temporanei e senza la tipica subordinazione del posto fisso. Se da un lato l’attenzione è giustamente posta sulla potenziale precarietà che caratterizzerebbe questi percorsi, dall’altro è innegabile che si tratta di un approccio al lavoro completamente diverso da quello a cui siamo abituati.
Spesso questi “lavoretti” rappresentano il frutto di una libera scelta di chi presta l’opera e il lavoro flessibile viene vissuto dalle generazioni come il New Normal. Secondo un report di Adecco Group “L’indipendenza data dal lavoro flessibile è un’aspirazione comune tra i giovani. Tra coloro che lavorano attualmente in autonomia, l’82% ha sempre desiderato un lavoro flessibile.”
Un percorso fatto di indipendenza, rischi, formazione e che negli Stati Uniti valeva già nel 2017 1,4 trilioni di dollari. Secondo il NASDAQ, entro il 2030 il 43% della forza lavoro sarà freelance. Di fronte a tutto ciò, le aziende devono rivedere le proprie strategie di reclutamento, le istituzioni fornire tutele sociali, il singolo ripensare a se stesso e a come collocarsi in tale contesto inedito.
Si va insomma sempre più verso l’era del progetto, in contrapposizione all’era dell’impiego dove la dimensione personale ha un peso molto forte nelle scelte del lavoratore. Questi potrà essere motivato dal work-life balance invece che dall’avere l’auto aziendale, potrà preferire programmi di welfare e wellness aziendale ai benefit più tradizionali. Fare downshifting, prendersi un anno sabbatico, adottare dichiaratamente una leadership inclusiva se non addirittura “al femminile” non sono più fenomeni sporadici con obiettivi meramente pubblicistici.
L’esperienza ci dice che il tema dell’equilibrio lavoro-vita è in evoluzione. In teoria, se volessimo veramente bilanciare le due cose, trascorreremmo la stessa quantità di tempo al lavoro come a casa, sul presupposto che siano ugualmente importanti per noi. Considerando la digitalizzazione del lavoro, il BYOD (quanti di voi hanno configurato la casella di posta aziendale sul proprio smartphone?), lo smart working, dovremmo più che altro parlare di work-life integration invece che balance.
Non c’è più bisogno di stare al lavoro dalle 9 alle 17, e neppure di andare otto ore in ufficio. Per molti mestieri esiste la possibilità di lavorare da qualsiasi luogo: la propria abitazione, uffici condivisi, spazi di coworking moltiplicano le opportunità, per esempio quella di lavorare con colleghi in diversi fusi orari.
Il Personal Branding per affrontare il cambiamento
Tutte le trasformazioni che abbiamo raccontato nelle pagine precedenti portano a più di una logica conclusione, rispetto al tema che ci è più caro.
Al di là delle competenze, per continuare a essere rilevanti e attrarre opportunità, collaborare in maniera efficiente con gli altri è necessario essere ben visibili, posizionati, connessi. Tutte cose rese possibili grazie a una strategia efficace di Personal Branding. Tra l’altro, è la digitalizzazione stessa a offrirci degli strumenti funzionali per questa strategia.
Saper usare i social media, curare il proprio profilo e il proprio network rappresentano modalità finora inedite per innovare la propria professione. Possiamo beneficiare della disintermediazione dilagante in corso e renderci protagonisti diretti della nostra narrazione.
1- La digital disruption e la tecnologia impattano sui modelli produttivi e su quelli comportamentali. Pensiamo alle aziende che hanno successo oggi e a come sono organizzate, a che tipo di prodotti vendono, a quale tipo di customer service offrono, quale esperienza danno al consumatore e quanto tutto ciò influisca sulle professionalità necessarie per questi modelli di business. Se le professioni mutano, si perdono e si creano, rimane costante il bisogno di saper comunicare il proprio valore.
2- Il nuovo contesto socio-economico fa sì che viviamo in un mondo senza confini, dove diventerà sempre più normale avere contatti con colleghi lontani o partner all’estero, dove saremo sempre di più e tante generazioni convivranno sul posto di lavoro come mai prima d’ora. Questo non farà che aumentare la necessità di saper puntare sulla propria specificità e punti di forza, di essere consapevoli dei propri valori personali, di sapersi distinguere e rendersi memorabili e approfittare del proprio “grafo sociale“, rendendo beneficio a se stessi e all’organizzazione, come suggerisce LinkedIn.
3- Il mercato del lavoro che cambia induce alla necessità di ripensare la propria identità professionale. Di fatto, occorrono una riorganizzazione totale della vita lavorativa e un nuovo patto collaboratore-azienda. Non essere fisicamente presenti in ufficio, o lavorare addirittura da esterni, rende urgente un posizionamento molto chiaro e distintivo. In un contesto come quello appena delineato è indispensabile associare il proprio nome a un certo tipo di valore in maniera inequivocabile e memorabile. Solo così non si verrà dimenticati, ignorati o, banalmente, non scelti per opportunità importanti.
Il tutto va sotto il cappello del paradigma dell’innovazione, dove la vera questione è la creazione di valore o di maggiore efficienza. Possiamo riassumere la questione in una sola frase: si deve applicare il Personal Branding in azienda, un vero e proprio strumento per il management.
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