Se la prima applicazione del Personal Branding nell’area delle risorse umane riguarda la valorizzazione delle persone, un secondo ambito di utilizzo riguarda il Recruiting.
In questo articolo affrontiamo le relazioni tra Personal Branding e Recruiting differenziando tra:
- Processo di sourcing (la ricerca dei candidati da assumere),
- Employer branding tramite gli employee advocate
- Il processo in qualche modo opposto al recruiting: l’outplacement.
Personal Branding e sourcing
Partiamo con il recruiting, che è una delle attività essenziali non soltanto di ogni ufficio del personale, ma anche di tutte le imprese. Raggiungere le persone più qualificate e convincerle a lasciare il loro posto di lavoro per venire da noi non si rivela affatto facile. Per questo è necessario lavorare molto con una strategia che faccia evolvere il Personal Branding del selezionatore.
Oramai da qualche anno si parla di social recruiting, fenomeno a cui Anna Martini e Silvia Zanella hanno dedicato il primo libro in Italia. Con la velocizzazione dei processi di assunzione, anche il reclutamento online ha subito un’evoluzione, affermandosi come elemento chiave in termini di efficienza, competitività, assenza di barriere geografiche o settoriali. Assieme alla creatività il tempo è diventato un fattore cruciale per l’affermarsi del digitale nell’ambito delle Risorse Umane.
La “rivoluzione social” che ha cambiato il recruiting è già in atto: questo fenomeno è strettamente legato alle nostre abitudini sociali ed è facile credere che continuerà a crescere. Un recruiter oggi arriva ad avere molte più informazioni di quante il candidato stesso possa immaginare o possa desiderare di voler condividere. Tant’è che secondo i recruiter i social media sono molto più efficaci di quanto pensino i candidati! (Fonte: Adecco – Work Trends Study 2019)

Migliorando il suo positioning e agendo specificamente su alcune attività chiave, il recruiter può trasformarsi in un social recruiter e cambiare radicalmente il proprio approccio. Attraverso una relazione continuativa con i candidati (passivi e non), aumenterà sia la portata delle sue campagne di reclutamento sia l’efficacia dei suoi annunci di lavoro. Impiegherà meno tempo per coprire le posizioni vacanti e porterà al suo manager di linea profili più appropriati, proprio perché conosciuti nel tempo. Rappresentando l’azienda in maniera più coerente e sistematica, raccoglierà candidature più adeguate, con un’accelerazione del cosiddetto “time to hire”.
Facciamo degli esempi pratici. Nel suo modello di business personale, un selezionatore “vecchia maniera” considera come partner chiave il resto del team dei suoi colleghi HR. Un social recruiter, invece, si attiva per chiedere la collaborazione dell’ufficio marketing e comunicazione così come degli influencer di quel settore, per esempio esponenti di spicco di quell’ambito. Non immaginate Chiara Ferragni: anche per le professionalità più di nicchia ci sono delle persone con cui vale assolutamente la pena fare rete, proprio perché molto ben inserite e connesse, capaci di segnalare i trend del momento e profili potenzialmente interessanti.
L’evoluzione della figura del social recruiter prevede uno sforzo da compiersi a più livelli organizzativi, dove l’HR deve lavorare in sinergia con il marketing, la comunicazione, il legale, l’IT. Ancora una volta, è importante sapersi fare portatori del cambiamento per governarlo.
Ma il mutamento più radicale avviene nelle attività del recruiter. Dallo scartabellare curricula e fare telefonate si passa a lavorare d’anticipo con il content marketing, il community management, le digital PR e il social networking. Saper gestire il proprio ecosistema digitale professionale è una competenza chiave per il recruiter contemporaneo. Ne guadagnerà in termini di efficacia (non solo più candidati, ma anche più candidati giusti e “verificati” online), di envisioning, di employer branding e di efficienza dei processi.
Soffermiamoci un momento sulle attività di sourcing, quando un selezionatore deve attivarsi per reclutare nuove persone. Tendenzialmente i candidati più interessanti sono i cosiddetti passivi, quelli che non rispondono agli annunci di lavoro, che non stanno cercando in quel momento una nuova occupazione.
Aver saputo costruire una propria credibilità online, essersi connotati per serietà e professionalità, aver saputo tessere una rete di contatti si rivela essenziale per il reperimento di questi candidati. “I social network sono uno strumento prezioso per identificare i candidati passivi, perché questi ultimi ‘ci sono’ ossia sono presenti, diffondono loro informazioni, senza lo scopo attivo di una ricerca di lavoro. Un sourcer usa quindi i social network per arrivare a nuove risorse.”
Scrivono Martini e Zanella:
Per chi opera nel settore, non è raro sentire frasi del tipo: “Facebook è una cosa da ragazzini, io ho tanti anni di esperienza come head hunter e non mi serve”. […] Può essere stata un’affermazione plausibile nel passato, ma che mal si presta a rappresentare il futuro della professione. Quello che accade già oggi è che esistono selezionatori o consulenti di agenzie per il lavoro che gestiscono selezioni di candidati con una RAL a 5 zeri perché hanno saputo crearsi un’immagine credibile e una visibilità e una reputazione adeguata grazie ai social network. Di fatto, hanno saputo usare il Personal Branding all’interno del Social Recruiting come un’arma che li ha resi davvero competitivi rispetto agli esperti più senior del settore.
“La funzione HR è quella che si occupa per prima di diffondere cultura aziendale, competenze, modelli organizzativi. Dà un imprinting, proprio lo stesso imprinting che deve essere trasmesso e matchato con quello dei candidati, per far sì che il lavoratore giusto sposi l’azienda giusta. Quando si affrontano dei cambiamenti in azienda, l’HR manager ne è, in genere, il promotore. Si trova spesso a dover anticipare, anche dando l’esempio, quello che è un momento di transizione verso nuovi orizzonti.
Se la proprietà decide di attuare un cambiamento, che sia organizzativo, geografico, di stile, una forte riduzione di personale, o altro ancora, l’HR manager ne è in genere il soggetto attuatore, la navetta pilota. Dovendo in primis vivere e dare esempio per permettere a ogni singolo dipendente di agire poi nella maniera corretta è importante che lui stesso sappia vivere, interiorizzare, metabolizzare e attuare ogni forma di cambiamento”.
Personal Branding ed employer branding
Un secondo ambito di applicazione del Personal Branding in azienda in area recruiting è quello dello sviluppo dell’employer branding puntando sul Personal Brand di alcune figure rappresentative aziendali. Le aziende che sanno valorizzare e coinvolgere i propri dipendenti come promotori della propria organizzazione in qualità di datore di lavoro ne ricavano diversi benefici: sia verso l’esterno, in termini di capacità di attraction, sia verso l’interno, per il miglioramento dell’engagement e della motivazione delle persone.
Persone che saranno più orgogliose di lavorare per l’azienda e la lasceranno più difficilmente, facendo incrementare i tassi di retention. In questo contesto si parla tipicamente dello sviluppo di programmi di employee advocacy ai fini dell’employer branding (in questo contesto noi preferiamo utilizzare il termine “employee advocate”, che secondo noi è più calzante di “brand ambassador”).
Di fatto significa “ingaggiare” i propri collaboratori affinché siano in grado di promuovere l’employee value proposition (non a caso usiamo un’espressione del marketing applicata nel contesto delle risorse umane), cioè “la somma complessiva di tutto ciò che le persone vivono e ricevono nell’ambito del rapporto di lavoro con un’azienda: la soddisfazione intrinseca per il lavoro, l’ambiente, la leadership, i colleghi, la retribuzione e altro ancora” (Cit. Michaels, Handfield Johns, Axelrod).
Proprio per questo, se non c’è reale allineamento fra quello che si dice e quello che si fa, se non si sviluppa una cultura aperta, se non c’è engagement reale da parte dei collaboratori, sviluppare programmi di employee advocacy può diventare un boomerang molto pericoloso.
Cisco è tra le multinazionali che più hanno puntato sui propri collaboratori, facendone dei veri e propri testimonial, con un’innovativa gestione dei social network dal basso, con takeover degli account per raccontare le storie degli impiegati. In Italia con operazioni come quella di Conad si mette al centro il dipendente nelle proprie azioni di employer branding e pubblicitarie. Nell’affrontare situazioni di crisi (le proteste contro l’utilizzo dell’olio di palma), Ferrero ha schierato i propri collaboratori come primi certificatori della qualità dei prodotti che contribuivano a creare.
In questo contesto è ovviamente utile far leva sui canali social privati dei propri collaboratori: “Il contenuto condiviso direttamente dai dipendenti ottiene in media otto volte l’engagement di quello dei canali ufficiali”. Non a caso sono stati lanciati numerosi strumenti di employee advocacy, da Elevate di LinkedIn ad Amplify di Hootsuite, fino alla più recente startup Smarp.
Focalizziamoci però su quegli sforzi di employee advocacy che si sono avvantaggiati dell’applicazione del Personal Branding di alcune persone chiave dell’azienda, con lo scopo primario di consolidare l’immagine dell’azienda come datore di lavoro sia sui canali digitali sia su quelli fisici, quali career day o fiere. Si può lavorare sul consolidamento dell’immagine di alcuni collaboratori supportandoli nei loro sforzi di “farsi un nome”, magari perché vogliono essere percepiti come esperti o thought leader del settore o di alcuni degli ambiti in cui l’azienda opera (ma non è obbligatorio, anzi spesso si punta al branding in generale).
Tale strategia da un lato amplifica le opportunità di visibilità per l’azienda e i suoi messaggi, da un altro mette in relazione con il proprio pubblico delle persone formate dal punto di vista della comunicazione (molto utile per non rischiare scivoloni reputazionali) e con un posizionamento, che servano da ispirazione per i potenziali candidati sia con le loro competenze sia con i loro valori. Del resto questi preferiscono lavorare per aziende in cui operano persone che stimano piuttosto che per realtà anonime che dimostrano di mettere in luce, puntare su e tenere in considerazione i loro dipendenti.
Personal Branding e outplacement
Da ultimo, affrontiamo ora il tema della mobilità esterna, o outplacement. Il Personal Branding in questo caso agevola la mobilità proprio perché fa luce sui gap di sviluppo professionale e aumenta la capacità di proporsi con efficacia per nuovi ruoli.
Chi si trova ad affrontare un percorso di outplacement spesso può essere nella complessa situazione di dover gestire tutta una serie di fattori: rabbia, disorientamento, perdita totale o parziale dell’identità professionale. Questo significa, soprattutto all’inizio, non essere nelle condizioni di raccontare se stessi in modo consapevole ed efficace; come se, una volta esaurito il rapporto formale con il proprio datore di lavoro, fossero smarrite anche le proprie competenze e la propria professionalità.
Il primo passo è quindi recuperare il senso di autoefficacia e la consapevolezza di quanto sia vasto il contributo che si può ancora dare. Occorre inoltre avere ben chiaro che esistono molti mercati del lavoro, alcuni emersi e altri meno trasparenti. In più, si deve gestire una cosa piuttosto complicata che si chiama “tempo”.
Quando si è in uscita da un’azienda o si è già perso il proprio posto, si ha solitamente una grande fretta di ritrovare un lavoro, anche per una questione identitaria e di relazioni sociali. Ecco perché nei propri percorsi di career transition, il Personal Branding costituisce il primo modulo somministrato da parte delle principali società di outplacement. Alcune aziende si predispongono persino a supportare internamente i collaboratori in percorsi di outplacement tramite il Personal Branding. Un’iniziativa che abbiamo contribuito a realizzare durante un progetto in Swiss Post a Berna dove abbiamo formato i coach del team HR a supportare i collaboratori nella loro mobilità volontaria, interna ed esterna all’azienda.
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