Il Personal Branding è sicuramente un modello di estrema attualità, specie nei contesti aziendali odierni, e come abbiamo più volte ribadito può aiutare ad affrontare anche le problematiche professionali tipiche del mondo contemporaneo.
Dire che il mondo sta cambiando è un’affermazione ormai ridondante e quasi priva di significato. La sfida di questo articolo, invece, è analizzare le macrotendenze degli ultimi anni e cercare di spiegare bene le motivazioni per cui pensiamo che sia ancora più necessario applicare il paradigma del Personal Branding anche nei contesti aziendali, tanto per il singolo collaboratore quanto per chi gestisce le organizzazioni.
Vi proponiamo quindi una carrellata di tutti quei fenomeni che stanno trasformando le nostre vite professionali, gli equilibri economici e non ultimo il mercato del lavoro. Le abbiamo divise in tre macroaree, afferenti a tre ambiti principali: la tecnologia e il digitale, l’assetto socio-economico entro cui ci muoviamo e i trend che caratterizzano specificamente il mondo del lavoro.
Gli impatti della tecnologia e del digitale
Si fa un gran parlare di digital transformation. In realtà, già dai tempi del Cluetrain Manifesto (ormai vent’anni fa), si è iniziato a parlare concretamente di un nuovo paradigma sociale e di business legato alla tecnologia. Quelle tesi illustravano come le imprese dovessero modificare e velocizzare i propri processi in ottica di disintermediazione e verso una maggiore autenticità: “Le aziende che vogliono ‘posizionarsi’ hanno bisogno di prendere posizione”.
Più recente è il modello Digital Vortex, nato dalla collaborazione tra la business school IMD di Losanna e Cisco nel 2015 e spiegato anche nel libro Digital Vortex: How Digital Disruption Is Redefining Industries. Secondo gli autori, la digital disruption ha il potenziale di rimodellare i mercati più velocemente di qualsiasi altra forza nella storia. Per dirla con le parole della giornalista Martina Pennisi del Corriere della Sera, si tratta di “innovazione senza permesso”.

A fare la differenza sono la rapidità del cambiamento e gli elevatissimi interessi economici coinvolti. I digital disruptor innovano rapidamente, riuscendo a guadagnare quote di mercato e scalare molto più velocemente di quegli sfidanti ancora legati a modelli di business prevalentemente fisici o tradizionali.
Il vortice che dà il nome alla teoria di cui sopra fa riferimento a un modello in cui una forza rotazionale attrae tutto ciò che lo circonda nel suo centro. Il vortice digitale è l’inevitabile movimento delle imprese verso un “centro digitale” in cui i modelli di business, le offerte e le catene di valore vengono digitalizzati nella massima misura possibile. Man mano che si ovvia ai sistemi tradizionali (per esempio eliminando la carta nei processi aziendali), ci si avvicina sempre più al centro del vortice, con la possibilità di creare modelli di business inediti. Per approfondire, il report completo è disponibile qui.
Il Web 2.0, con l’esplosione degli UGC (user-generated content) e dei social media, ha scatenato la disintermediazione e creare nuove dinamiche relazionali. Su tutte, la fiducia di quanto dichiarato da un mio pari, in concomitanza al tracollo della fiducia nelle istituzioni. Si è modificato il concetto stesso di gatekeeping, meccanismo di selezione e filtro delle informazioni che per secoli ha contraddistinto gli scambi umani. Assumono così sempre più centralità la reputazione e la credibilità.
Un parco gigantesco dove ciascuno di noi ha un palco dal quale può parlare con voce forte e chiara ed esprimersi su qualsiasi argomento. Se non manca la libertà, è evidente che non bisogna scordare la responsabilità che ne deriva: Internet non dimentica, e la cura del proprio Personal Brand anche online dovrebbe costituire una strategia a lungo termine basata su un’attività quotidiana.
L’intermediazione viene messa sotto pressione da questi meccanismi, che in aggiunta riducono l’asimmetria cognitiva. Perché qualcuno si fidi veramente di noi dobbiamo cambiare atteggiamento. Per esempio da venditori di prodotti occorre farsi percepire come consulenti esperti e degni di essere ascoltati e seguiti. Come affermano Giaglis George e Klein Stefan, “ci si aspetta che la personalizzazione e le strategie di direct marketing contribuiscano al contatto diretto tra venditori e acquirenti”. La citazione è tratta dalla versione in PDF scaricabile qui.
Pensiamo a quanto è calata la fiducia delle persone nelle istituzioni e nelle pubblicità. Siamo lontani anni luce dalla teoria del proiettile magico, che sanzionava lo strapotere dei mass media nel condizionare le masse esponendole a messaggi ripetuti e aggressivi. Oggi abbocchiamo sempre meno al bombardamento degli spot e tendiamo a fidarci sempre più dei nostri pari nelle nostre scelte di consumo.
Pensiamo a quanto siamo diventati più autonomi nell’organizzazione dei nostri viaggi, mentre le agenzie vengono sistematicamente tagliate fuori. O a quanto ci fidiamo più di migliaia di recensioni fatte da perfetti sconosciuti che degli annunci pubblicitari. O ancora, il coinvolgimento di figure come quelle degli influencer da parte di brand che solo 10 anni fa spendevano i loro budget milionari in riviste patinate. Joe Pine – consulente d’impresa con Strategic Horizons LLP – parla nei suoi libri addirittura di experience economy.

A complicare ulteriormente il quadro ci pensano le tecnologie esponenziali. Cose come la blockchain, l’intelligenza artificiale, la robotica, l’Internet of Things, che non crescono linearmente ma sono contraddistinte da una grande velocità e accelerazione. Stanno emergendo nuovi canali di distribuzione e modelli di business basati sui dati (o data driven). Di conseguenza, anche i modelli aziendali devono sapersi evolvere, con una combinazione di modelli online e offline.
Che impatto avranno l’Internet of Things e l’IA, che stanno mutando il nostro modo di rapportarci con gli oggetti, nella relazione tra le persone? Dietro ogni tecnologia c’è un essere umano e per mantenere la nostra qualità di professionisti dobbiamo non solo capire quali sono le nostre capacità cruciali nella realtà di oggi, ma anche saperle presentare.
Come viene in aiuto il Personal Branding in questo contesto?
Confrontarsi con tale complessità accelerata non è semplice, ed è in questo senso che viene in aiuto il Personal Branding in azienda. Per esempio, gestire grossi quantitativi di informazioni sta diventando sempre più complicato. Per superare l’inerzia e l’entropia (oltre che la pigrizia) nostre e dei nostri interlocutori, dobbiamo saper mantenere e consolidare le relazioni da remoto, conversare in maniera rilevante con le persone giuste e gestire la nostra immagine. Fare leva su piattaforme di networking professionale è uno dei modi per differenziarsi e non rischiare di venire dimenticati.
Gli impatti del nuovo contesto socio-economico
Dopo la tecnologia, il secondo macro-ambito da analizzare è quello dei cambiamenti socio-economici.
Prima di tutto, pensiamo a quanto la globalizzazione abbia cambiato le nostre esistenze negli ultimi venti anni. Dal punto di vista professionale, per limitarci a un esempio, è diventata centrale la questione della mobilità internazionale, che porta con sé una nomenclatura molto vasta e non scevra da ideologia: “fuga di cervelli”, “guerra dei talenti”, “immigrati economici”.
Abbiamo già detto che con la trasformazione digitale le distanze si annullano. Nell’era della globalizzazione, i confini scompaiono – quelli tra i Paesi, ma anche quelli di comunicazione. I talenti possono facilmente trovare informazioni sulla qualità della vita in un determinato Paese, comprendere le possibilità di crescita e le prospettive per il futuro.
Il “mercato dei datori di lavoro” ha ceduto il passo al “mercato dei dipendenti”: per le aziende diventa importante offrire condizioni competitive. Allo stesso modo, anche i Paesi dovrebbero comprendere il ruolo cruciale che possono giocare nella mobilità internazionale: saper gestire le differenze, e valorizzarle, sarà un asset chiave tanto per le singole persone quanto per le organizzazioni, che non a caso sono sempre più orientate a politiche di inclusione, perché la diversità genera ambienti multiculturali.
In questo senso può venire in aiuto il Global Talent Competitiveness Index, un rapporto annuale con la lista dei migliori Paesi e delle migliori città in base alla loro capacità di crescere, attrarre e trattenere talenti. Questo rapporto aiuta non solo chi cerca lavoro a decidere dove stabilirsi, ma anche i decision maker a sviluppare strategie dedicate all’attrazione dei talenti. Sul sito potete anche divertirvi a cercare la città più adatta a voi.

Prendiamo l’invecchiamento della popolazione, fenomeno dalle molteplici conseguenze: sul mercato del lavoro, sul sistema sanitario, sulle aziende sul sistema sociale e previdenziale, sulla società, sulla cultura, a livello familiare, oltre che naturalmente a livello umano ed individuale. Con il drastico calo delle nascite da un lato e l’enorme crescita dell’aspettativa di vita è evidente a (quasi) tutti che occorre rivedere – oltre al sistema delle pensioni – il concetto stesso di percorso professionale.
A breve le aziende dovranno capire come far lavorare assieme persone nate nei primissimi anni Duemila e quelle ultrasettantenni. Non a caso si parla già di gestione dei millennial e dei cosiddetti silver talent. Da un lato, giovanissimi digital native con richieste e proiezioni professionali completamente inedite. Dall’altro, collaboratori da molto tempo sul mercato, con situazioni familiari, di salute e di motivazione mai affrontate in passato.
Per non parlare di dinamiche quali il reverse mentoring o la leadership di un team più anziano, partendo dal presupposto che entro fine 2020 i millennial costituiranno il 50% della forza lavoro globale. Persone che hanno aspettative sul lavoro molto diverse da quelle del passato, e che hanno una concezione di carriera non lineare, ma legata alla gestione di una sequenza più o meno omogenea di progetti.
In tutto il mondo, le popolazioni urbane stanno crescendo molto più velocemente delle popolazioni rurali. Secondo il World Economic Forum, oggi le città occupano solo il 2,6% della crosta terrestre “ma ospitano oltre il 50% della popolazione mondiale, generano oltre l’80% del PIL mondiale e utilizzano il 75% delle risorse naturali del mondo”. Entro il 2030 il 60% della popolazione mondiale vivrà in aree urbane, creando una maggiore economia di servizi e conseguenze rilevanti sul mercato del lavoro.
Per scoprire le altre aree di impatto e le conclusioni ti rimandiamo alla seconda parte di questa trattazione.
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